Cenacolo con Alberto Carnevale Maffè Professore di Strategia e Politica Aziendale Università Bocconi

Cenacolo con Alberto Carnevale Maffè Professore di Strategia e Politica Aziendale Università Bocconi

Cenacolo con Alberto Carnevale Maffè Professore di Strategia e Politica Aziendale Università Bocconi

Si è svolto giovedì 30 marzo alle ore 19.00 a Milano presso l’Hotel Westin Palace il Cenacolo con Carlo Alberto Carnevale Maffè, Professore di Strategia e Politica Aziendale presso l’ Università Bocconi,

Carlo Alberto Carnevale Maffè, tra i più apprezzati studiosi di digital economy, insegna Strategia alla Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi ed è fondatore del Master in Strategia Aziendale e del corso di Business Strategy per il Bachelor in International Economics & Management. Docente anche in grandi atenei internazionali (Berlino, NY City ecc.), è nell’Editorial Board di Harvard Business Review Italy e nel comitato scientifico di Assodigitale. Advisor di imprese di spicco, è amministratore Indipendente di Società del comparto Technology, Media &Telecommunication. Ai suoi libri, articoli e casi aziendali, si aggiunge la presenza su testate e tv come CNBC International/Class CNBC, Il Sole 24 Ore, The Economist, Time, Business Week, WSJ, Financial Times, NY Times,

INTERVENTO DI CARLO ALBERTO CARNEVALE MAFFE’

L’Internet dei “doveri”: da infrastruttura a istituzione

Internet è la continuazione –  e talvolta la sostituzione – della politica con altri mezzi. Essa deve quindi diventare nuova istituzione, sistema operativo sociale, moderna forma di diritto ibrido pubblico-privato. Per renderla strumento efficace di politica inclusiva e abilitante, leva di crescita e di tutela del potere d’ acquisto delle famiglie, non bisogna pensare a Internet come a un altro “luogo”, dove estendere i diritti tradizionali, formulati in articoli testuali di leggi o di regolamenti, come invece discutibilmente cercano di fare le “Bill of Rights” per la Rete proposte dai più diversi attori. Internet è invece un altro “metodo” di organizzazione sociale ed economica, che ridiscute il concetto di territorio fisico come perimetro di giurisdizione, e affianca – o in certi casi rimpiazza – lo “ius loci” con lo “ius retis”, nuovo linguaggio di regole collettive extranazionali e consorzio elettivo degli aderenti interconnessi a formare masse critiche di consenso, rappresentato dall’affermazione di standard interoperabili de facto.

Non basta quindi parlare dell’Internet dei diritti, per la quale si invocano generiche tutele senza considerare che spesso manca la controparte giuridica in grado di garantirle. E’ tempo di discutere dell’Internet dei doveri, che superi la logica soggettiva e opportunistica con la quale ci si è finora affacciati alla Rete, così ¬ da far evolvere l’infrastruttura tecnologica in una vera e propria istituzione sociale e di mercato. I doveri sono il risultato di patti liberamente sottoscritti. In un’Internet dei doveri, tuttavia, lo Stato nazionale vede erodersi il tradizionale monopolio della legislazione, del monitoraggio e della certificazione dei patti e della sanzione per l’eventuale mancato rispetto. Nuovi attori tecnologici, legalmente e perfino fiscalmente extraterritoriali, contendono allo Stato il primato weberiano della “coercizione legittima”. Ma nessuno di loro appare in grado di dominare singolarmente l’intero sistema di regole. Internet rimane quindi un sistema aperto, un nesso di patti. Anzi un “nexus of smart contracts”. Cambia infatti anche il linguaggio con il quale si scrivono le regole, che non è più il testo alfabetico di una legge scritta, ma il codice informatico di un algoritmo “smart contract” basato su protocolli standard, definiti tali non da autorità  centralizzate, ma da una massa critica di consenso distribuito, tramite piattaforme basate su “blockchain”. Stipulare un contratto oggi è facile come scaricare una app, anzi il consenso espresso via app è ormai la forma più diffusa e comune di definizione di un accordo contrattuale. Verificarne l’applicazione e applicare eventuali sanzioni per il mancato rispetto richiede raramente l’enforcement delle autorità  costituite, basandosi più semplicemente su una massa critica di “hash power”, ovvero di attività di calcolo e monitoraggio distribuita a livello globale. L’Internet dei doveri non quindi è la strada verso una nuova sovrastruttura dirigistica, per di più a controllo privato, ma l’opportunità di adottare un sistema liberale di incentivi che, agendo sui prezzi relativi (anche non monetari) delle diverse opzioni, faciliti l’orientamento delle scelte verso la costituzione di masse critiche adeguate a garantire le necessarie economie di scala.

Il conflitto d’interessi tra internet e politica

I tentativi della politica di regolamentare Internet trattandola come un’estensione territoriale della propria giurisdizione legale sono sistematici, e in molti casi in buona fede. Ma sono destinati all’inefficacia o, peggio, all’irrilevanza. La realtà  è che Internet costituisce, in specifici perimetri di processi socio-economici, modalità di organizzazione sociale alternativa alle regole tradizionali prodotte dalla politica. Ed è quindi l’evoluzione di Internet che, sempre più contro-regola la politica e non viceversa. Si pensi al valore della classificazione alberghiera ufficiale ai tempi di TripAdvisor, o all’auto “driverless” di Tesla o di Google che si muove – senza pilota – nel sistema tradizionale di regolazione del traffico automobilistico privato, tuttora improntata a regole aprioristiche, come gran parte dell’intero sistema giuridico tradizionale, concepite in un contesto di totale asimmetria informativa rispetto all’ambiente. Per esempio: non si passa col rosso, anche se dal nostro lato c’è  una lunga coda e dall’altro lato sappiamo con certezza che nessuno sta arrivando. Oppure: si usano strade e parcheggi in modalità  isolata e opportunistica, invece che sulla base di una mappa informativa trasparente e pubblica, col supporto di un sistema di pricing dinamico che ne assicuri allocazione razionale. Il tutto con effetti penalizzanti sull’efficienza del traffico urbano nonchè sulla produttività  del lavoro. Ma Internet è anche semplice elusione, per inapplicabilità , del sistema di poteri dello Stato: senza scomodare il dibattito sulla tassazione dei grandi attori di Internet, si pensi al diritto dall’intercettazione delle comunicazioni private da parte dell’autorità  giudiziaria, eluso efficacemente e semplicemente grazie all’utilizzo di sistemi di messaggistica P2P non intercettabili.

Per quanto finora l’utilizzo individuale e opportunistico di Internet sia stato uno dei fondamentali fattori di diffusione e successo globale, si vuole porre qui la sfida, per la politica, nel definire impegni comportamentali ad adozione volontaria e distribuita che possano contribuire alla creazione di “public goods”, altrimenti non costituibili, o semplicemente accelerarne la creazione. La politica, anche se non da sola, può cogliere l’occasione di Internet per favorire la stipula di patti volontari interconnessi. C’è da dubitare che sia davvero razionalmente incentivata a farlo, perché ciò accelererebbe la perdita del monopolio tradizionale della coercizione legittima che essa gestisce pro tempore. È quindi perfettamente comprensibile che la politica, intesa nell’ottica della “public choice theory”, sia nemica, tanto silenziosa quanto giurata, di Internet. Ma, per quanto offesa dal reato di lesa maestà perpetrato dai sanculotti della Rete, la politica può ancora fare molto per i cittadini, proprio grazie a Internet: deve tuttavia intervenire, con i propri poteri residui, sulle ragioni di scambio del mercato che può decretare il successo o il fallimento di radicali innovazioni sociali ed economiche, in grado di supportare un nuovo modello di welfare che altrimenti ha un destino segnato per la crisi fiscale degli Stati nazionali.